Numero 1 - Autunno 2008

Sommario
- Redazione di “Senza Titolo”, Editoriale
- Alfredo M. Bonanno, La vita e la morte
- Annotazioni significative
- Charles Baudelaire, La politica e i suoi sposi, anche
- Esperto in teratologia, Psicopatologia di un nano malefico
- Ricominciamo da tre, Il nano e la merce
- Gustave Flaubert, La leggenda di Giuliano
- Ecrasez l’infâme!, L’uomo vestito di bianco
- Annotazioni significative
- Niccolò Machiavelli, Instrumentum regni
- Non abbaiare, mordi, Abiti e idola

Editoriale
Per quanto possiamo immaginarci radicali o estremisti, e in cuor nostro custodire intatti sentimenti di odio e tanta, ma tanta, aggressività, siamo costretti ad ammettere che almeno una cosa ci troviamo a condividere col nemico: il linguaggio.
Mettendo mano a sporcare un foglio di carta ci rendiamo conto che questo condominio è un po’ imbarazzante e merita che se ne discuta. Discutere? Ma come? Discutendo non facciamo ricorso proprio a quella cosa in comune, non facciamo ricorso al linguaggio?
Sembrerebbe una via senza uscite. Ci siamo posti, sprovvedutamente, davanti al rasoio di Hume e al teorema di Gödel. Ostacoli insormontabili. Dall’interno di un problema, esposto secondo alcune regole, non ci possono essere, fra queste regole, strumenti adeguati a risolvere il problema stesso. Se sono su di una nave in alto mare e questa nave ha una falla posso ripararla con i mezzi di bordo? No, non è possibile, la nave è destinata ad affondare. Eppure Carnap, parlando proprio di problemi linguistici, aveva detto il contrario. Errore, Carnap si è sbagliato e tutti i neopositivisti logici che gli sono andati dietro hanno fatto la figura dei cani dietro la salsiccia.
Prendiamo la penna in mano, anzi mettiamo le mani sulla tastiera del computer, e scriviamo. Mentre che scriviamo guardiamo la nostra nave affondare. Non possiamo salvarla con quello che stiamo scrivendo, non possiamo pronunciare la parola adatta a turare la falla attraverso la quale l’intero oceano sta entrando dentro il nostro minuscolo mondo distruggendolo. Costruiamo in questo modo un castello di carte che un improvviso starnuto del nemico manda per aria.
L’idea, dunque, di causalità deve derivare da qualche relazione esistente tra gli oggetti, e questa relazione dobbiamo cercare di scoprire. In primo luogo, trovo che gli oggetti considerati come causa ed effetto sono contigui, e che niente potrebbe agire su altro se tra essi ci fosse il minimo intervallo di tempo o di spazio. Dobbiamo, quindi, considerare il rapporto di contiguità come essenziale a quello di causalità. La seconda relazione che io considero come essenziale a quella di causalità non è universalmente riconosciuta, anzi è controversa, e consiste nella priorità di tempo della causa sull’effetto. Avendo così scoperto, o supposto, che le due relazioni di contiguità e di successione sono essenziali a quella di causalità, mi accorgo che sono costretto a fermarmi e che, quale che sia il caso particolare di causalità, non posso aggiungere altro. Il movimento di un corpo è considerato come la causa, in seguito a un urto, del movimento di un altro corpo. Considerati questi oggetti con la massima attenzione, trovo che l’uno si avvicina all’altro, e che il suo movimento precede quello dell’altro, sebbene senza un sensibile intervallo. È vano torturarsi con ulteriori pensieri e riflessioni, qui è tutto quello che si può osservare in questo caso.
David Hume
Il fatto è che le sottigliezze di Hume e di Gödel, pure essendo fondate, e non acconsentendo ad eccezioni, sono appunto sottigliezze, sarebbero mortali per quello che stiamo dicendo se pretendessimo di proporre un nuovo modello di ordine, diverso certo da quello retto sul medesimo linguaggio che condividiamo con il nemico. Ma non vogliamo entrare in questioni di ordine. Stiamo dicendo per non dire, parlando per non parlare, stiamo suggerendo implicitamente al nostro dire il modo in cui non tenere conto di quello che andiamo dicendo, eccetto una cosa, una cosa non detta, una cosa soltanto intuita da noi e dai nostri pochi lettori, impossibile a catturare da parte del nemico ricorrendo al medesimo strumento (parole, ancora parole) che qui viene impiegato.
Ordine e caos. Questi due termini, nel linguaggio, sono indissolubilmente legati. Caos è contrario di cosmo, quello che c’era prima del cosmo? Non esattamente. Diciamo quello che è non-mondo. E se questo mondo in cui viviamo è così come ce lo andiamo sperimentando ogni giorno di più, preferiamo vivere in un nostro non-mondo, cioè nel nostro caos. È ovvio che non posso pensare di vivere nello sbadigliante caos primigenio, ma posso pensare un non-mondo in cui il caos non sia né regola indiretta né fantasia che serva soltanto per sviluppare una critica di quello che non va nel cosmo ordinato e perfetto dei dominatori e dei servi sciocchi, visto che non possiamo avere un resto positivo nemmeno a cercarlo con la lanterna di Diogene.
Nel mondo che ci ospita non ci sono aspetti positivi, per noi, neanche quegli stretti strumenti linguistici (e tecnici) che in questo momento ci stanno consentendo di scrivere queste righe. Non c’è niente da salvare. Il mondo come organizzazione razionale di rapporti e giudizi non ci riguarda, la critica di questa mostruosità è un prodotto della mostruosità stessa, viene fabbricata in serie, non c’è bisogno che il sudore della nostra fronte innaffi qualche risma di carta per approfondirla.
E poiché, deliberatamente, con la follia che ci ha da tanto tempo contraddistinti, vogliamo dare vita a un non-discorso continuativo, in altri termini a un foglio periodico, spudoratamente estraneo al mezzo stesso che impiega, la parola, è bene intendersi fin da subito. Chi dovesse trovare impossibile (?) questo progetto di dire l’indicibile abbandoni la partita adesso e non si ammali di fegato poi. Chi trovasse difficile comprendere un progetto del genere si metta l’animo in pace, non c’è niente da comprendere, si tratta semplicemente di una follia.
Ebbene, che avete contro la follia? Nostri compagni di strada di lunga percorrenza o nuove accidentali conoscenze da trivio?
Niente per la forma, equivalenze, assunti, dimostrazioni, ipotesi, documentazioni, sillogismi e quant’altro appartiene alla logica dell’a poco a poco che continua a foraggiare allegramente, specialmente per quel che riguarda la parte critica, gli accasermamenti del nemico.
Per alcune decadi invero, gli studi sui fondamenti della matematica sono stati turbati e notevolmente stimolati dalla considerazione di due paradossi, uno proposto da Bertrand Russell nel 1901, e l’altro da Kurt Gödel nel 1931. Come primo passo su questo terreno accidentato consideriamo un altro paradosso, quello del barbiere del villaggio. In un certo villaggio c’è un uomo, così dice il paradosso, che è un barbiere, questo barbiere sbarba tutti, e soltanto, quegli uomini che non si sanno sbarbare da soli. Quesito, il barbiere sbarba se stesso? Ogni uomo in questo villaggio è sbarbato dal barbiere se, e solo se, non si sa sbarbare da solo. In particolare, quindi, il barbiere sbarba se stesso se, e solo se, non sa sbarbarsi. Siamo in difficoltà se affermiamo che il barbiere si sbarba, e altrettanto se affermiamo il contrario.
Willard van Orman Quine
Niente per la sostanza. Quando qui apparirà una indicazione precisa, poniamo un indirizzo, sarà come se ci fosse allegato un sasso, una bottiglia rotta, una misericordia a doppia lama, che dire, qualunque altra cosa, sempre appartenente a quel condominio col nemico, ma non della categoria linguistica.
Con i sassi queste degne persone fabbricano anche le mura del carcere, non possiamo pensare quindi che per stringerne uno in mano (dico un sasso) si stia dalla parte della ragione contro l’occhiuta repressiva visione della vita. Le distinzioni non sono mai chiare. Una bottiglia molotov, di per sé, è solo una bottiglia piena per tre quarti di benzina (o altro liquido infiammabile) con uno straccio imbevuto, ecc., ecc., non fa un rivoluzionario neanche con tutta la buona volontà di questo mondo. Mitizzarla è, ancora una volta, cadere negli equivoci dell’armamento che ci hanno accompagnato per quarant’anni. Basta.
Il fatto è che non vogliamo stare dalla parte della ragione. Il mondo, anche quello che i benpensanti (futuri occhiuti repressori) vogliono oggi rendere pulito e respirabile, libero alfine di inquinamenti e desertificazioni vari, per noi è sempre mondo, non ci piace, non è in nome di questa panacea utopica che siamo disposti a batterci. Il mondo è sempre un prodotto dell’ordine e questi custodi fisiologici della natura sono i futuri coadiutori dei boia di domani.
L’ordine che caratterizza la vita dove vogliono tenerci prigionieri è un fatto religioso, richiede rispetto di leggi, regole e rituali che non vogliamo accettare, che non ci appartengono. Non siamo quindi sostenitori della loro rivoluzione, scientifica o meno che sia, la nostra rivoluzione è il caos. Non vogliamo evolverci verso la pacificazione con lo sbirro e con il compagno burocrate, in attesa del futuro pasto delle belve. Né vogliamo diventare la stampella di tutti i disgraziati di questo mondo, esercito crescente, pulsante come una bestia immane, alle porte del muro di cinta per avere la possibilità di essere ammesso al grande beneficio del carcere, godendo in questo modo, dietro cessione della propria dignità e della propria forza produttiva, di qualche osso buttato qua e là.
Il caos non è disgregazione dell’ordinato, per cui ci troveremo, insieme ai dissidenti di ogni pelo, a non sapere dove abbiamo messo ieri sera i vestiti prima di coricarci. Esso è l’assolutamente altro. Non è disordine, è non-ordine, due concetti differenti che è bene chiarire. L’ordine è unità e uniformità, corrispondenza, classificabilità, chiarezza, razionalità e utilità. Il caos è molteplicità, variabilità, probabilità, incertezza e, in fondo, inutilità.
Mai come oggi abbiamo bisogno di molteplicità di fronte a una organizzazione repressiva che ha mille strumenti d’ordine, non ultimo la coscienza venduta al mercato delle pulci da coloro che l’avevano acquistata con il sangue e con le lotte dei loro compagni del passato. Se anche i lavoratori, ultimo baluardo immaginario, vecchia guardia dura e pura, se ne sono andati di fronte allo stomachevole spettacolo di una politica ormai nuda, e se in questo loro stomacarsi hanno venduto la possibilità di un attacco contro i responsabili dello sfruttamento – politici e sindacalisti compresi –, allora non vogliamo accodarci né agli sparuti gruppi dei resistenti che trattengono per la coda i loro compagni che hanno voltato le spalle agli antichi ideali (ma perché mai non avrebbero dovuto farlo? forse per qualche altra commemorazione di lotta partigiana in più?), né ai custodi del segreto di tutte le rivoluzioni: le masse legittimano e garantiscono, basta trovare i toni giusti, i modelli giusti, le occasioni giuste, e gli uomini giusti, e la rivoluzione è dietro l’angolo. Ecco, non vogliamo questa uniformità foriera di ordine e di garanzia, vogliamo un’altra metodologia, molteplice e varia, libera ed esplosiva nella scelta dei suoi metodi e anche nella capacità critica di mettere sotto luce analitica nuova vecchi progetti e vecchi modelli d’intervento rivoluzionario. Molteplicità è anche libertà di cercare i nostri compagni, ancora una volta, testardamente, cercarli in modo libero, non partendo dai comuni moduli d’intenzione sfilacciati dal tempo e dalle malcomprensioni, cercarli per fare insieme quello che possiamo anche fare da soli ma che insieme pensiamo possa essere molteplicemente più efficace. Ecco quello che vogliamo fare.

Redazione di “SenzaTitolo”
Se si tratta d’intendersi e di comunicare con gli altri, io posso ovviamente far uso solo dei mezzi umani, di cui dispongo perché io sono anche uomo, oltre ad essere me stesso. E in realtà solo in quanto uomo ho dei pensieri, in quanto io, invece, sono al tempo stesso privo di pensieri, spensierato. Chi non sa sbarazzarsi di un pensiero è, in questo, solo uomo, è schiavo del linguaggio, di questa istituzione umana, di questo tesoro di idee umane. Il linguaggio o “la parola” ci tiranneggiano nel modo più brutale perché sollevano contro di noi un intero esercito di idee fisse. Osserva per una volta te stesso mentre pensi e ti accorgerai che puoi procedere nei tuoi pensieri solo perché resti ad ogni istante senza pensieri e senza parole. Non solo, per esempio, nel sonno, ma persino nella più profonda concentrazione del pensiero, tu sei senza pensiero e senza parole, anzi: sei così soprattutto allora. E solo grazie a quest’assenza di pensieri, a questa misconosciuta “libertà di pensiero”, ossia libertà dal pensiero, tu appartieni a te stesso. Solo partendo da essa arrivi a usare il linguaggio come proprietà tua. Se il pensiero non è il mio pensiero, esso è soltanto lo svolgimento di un’idea già pensata, è lavoro da schiavi o lavoro da “servi della parola”. L’inizio del mio pensiero, infatti, non è un pensiero, ma sono io stesso, e perciò io sono anche la meta, così come tutto il suo sviluppo non è che uno sviluppo del mio godimento di me stesso; per il pensiero libero o assoluto, invece, l’inizio è il pensiero stesso ed esso si tormenta cercando, per cominciare, l’ “astrazione” più alta (per esempio l’essere). Appunto questa astrazione o quest’idea viene poi svolta e articolata.
Max Stirner